Scrivere può essere un lavoro di squadra.
Intervista a Michele Santeramo
di Maddalena Giovannelli
Com’è lo stato di salute della drammaturgia italiana secondo Michele Santeramo?
“Credo che qualcosa finalmente stia cambiando, e in senso positivo. La nuova drammaturgia viene spesso percepita come qualcosa di distante dal pubblico, un settore più adatto agli addetti ai lavori: a questo fraintendimento si deve la paura degli operatori nel concepire programmazioni più aperte.
Ma gli autori per primi si sono ormai resi conto che non devono perdere il contatto con l’interesse del pubblico, provando per esempio a raccontare e problematizzare il presente. Quando lo spettatore riconosce che quello che vede lo riguarda, tornerà senz’altro teatro. E seguendo questo circolo virtuoso la nuova drammaturgia – a me piace chiamarla drammaturgia di autore vivo! – può riacquisire una sua centralità nel nostro teatro”.
Perché fare un laboratorio di drammaturgia oggi?
“Per non pensare al lavoro del drammaturgo come a un’attività da svolgere in completa solitudine. Trovarsi ad avere a che fare con un gruppo, almeno per un periodo, è molto interessante. Gli sceneggiatori di cinema e tv sono abituati a lavorare in team: ci si migliora mettendo in condivisione idee e difficoltà. Ognuno dei partecipanti è arrivato con una prassi di approccio ai testi differente, ma questo non ha impedito a nessuno di mettersi in relazione agli altri in modo proficuo”.
Quali sono gli aspetti su cui avete lavorato?
“Nella prima fase abbiamo messo a punto la struttura di ogni drammaturgia, l’‘ossatura’ di ogni storia. Poi, nella seconda tappa del lavoro, ci siamo concentrati sui dialoghi, discutendo scena dopo scena la condizione emotiva dei personaggi, e la funzione di ogni battuta. Il mio è un metodo empirico, ma quello che importa è il risultato: le battute devono essere vive, il dialogo non deve essere soltanto ‘bello’ dal punto di vista letterario.
Più in generale, abbiamo riflettuto molto sul rapporto dell’autore con le altre professionalità del teatro. Da un lato bisogna essere coscienti di non essere protagonisti unici nel processo di creazione dello spettacolo, dall’altro è bene che il drammaturgo precisi il testo il più possibile, per non lasciare ambiguità o eccessive aperture. Credo faccia parte della responsabilità dell’autore”.
Che impressioni porti a casa dopo le due sessioni di lavoro?
“Sono molto contento del percorso fatto sia a Brescia che a Mondaino. Mi sono trovato di fronte persone duttili, entusiaste, disposte a mettersi in gioco. Ho sentito nei partecipanti un profondo spirito di condivisione e una grande attenzione al lavoro degli altri: in situazioni come queste è importante fare squadra, permette di non sentirsi giudicati. Le drammaturgie sono tutte fortemente ancorate al presente, e da tutte si può ricavare uno sguardo non rassicurante sulla contemporaneità. I nostri sei autori, a quanto mi sembra, sono stati capaci di osservare il nostro mondo con grande lucidità”.